Tante volte, nella mia vita di pilota, la sera andando a letto ho pensato: anche oggi ho portato a casa “lo scheletro“, per usare un termine a me tanto caro perché lo usava spesso il mio maestro di vita, Armando Genovese detto Rico (un giorno vi dirò la ragione di questo soprannome), valoroso pilota dell’ultima guerra. Poche furono le volte in cui il mio “scheletro“ tornò a riposare nel proprio letto per capacità personali. Molte furono, invece, le volte in cui il buon Dio, per i credenti, o la fortuna (fra i soldati si usa un termine più colorito), mi ha permesso di riabbracciare i miei cari.
Oggi sono qui a raccontarvi uno dei tanti voli in cui io ed il resto dell'equipaggio ci potemmo considerare miracolati.
Esistevano nel passato, e credo ancora ci siano adesso, le esercitazioni in cui le aeronautiche di diversi paesi europei operavano congiuntamente nel Mediterraneo per perfezionare le procedure all’interno dell’Alleanza. In quelle circostanze al 15° Stormo veniva richiesta la partecipazione per garantire l’intervento nel caso in cui si fosse verificata un’emergenza ai velivoli interessati all’esercitazione. Non ricordo l’anno, ma fu sotto il comando dello Stormo da parte del Col. Pastorino che fummo impegnati con due o tre elicotteri sulla base di Cagliari Elmas per partecipare ad una delle esercitazioni denominate “Mare Aperto”. L’andare in Sardegna per noi del SAR è sempre stato un evento piacevole. La sera grandi mangiate di pesce, il giorno sempre voli tranquilli, senza preoccuparsi di dover scavalcare l’appennino, e poi si tornava a casa con scorte di dolcetti sardi, qualche cassa di vino comperato in loco e anche qualche buon formaggio pecorino. Anche questa missione aveva gli stessi connotati, anzi amplificati perché essendoci più equipaggi l’allegria nei momenti di inattività era maggiore. Doveva averlo ben capito anche il Col. Pastorino che si unì al gruppo dei “vacanzieri” e per di più decise di partecipare anche a qualche volo in qualità di osservatore. Il caso volle che il volo per il quale mostrò interesse fosse quello che mi voleva come capo equipaggio.
Ero all’epoca già pilota molto esperto e partecipai al briefing, che riguardava tutte le varie componenti impegnate all’esercitazione, insieme al copilota, l’allora Cap. Trinca. Sapevamo già che l’area interessata sarebbe stata quella compresa tra la Sardegna e Palma di Maiorca e che parte delle missioni si sarebbero svolte di notte. Nel tratto di mare interessato gli aerei avrebbero effettuato una serie di attacchi simulati per poi riportarsi in quota e rientrare a Decimomannu. Il nostro compito, come già detto, era quello di garantire la copertura SAR effettuando un volo di andata e ritorno senza scalo dalla Sardegna, fino a qualche miglio a sud delle isole Baleari, facendo ascolto sulla frequenza di emergenza per eventuali comunicazioni da parte di velivoli che si fossero trovati in difficoltà. Nel corso del briefing emerse però che la quota alla quale gli aerei avrebbero effettuato i loro attacchi sarebbe stata di 500ft, ne derivava che la quota alla quale noi saremmo dovuti restare per tutta la durata del volo, per evitare pericoli di collisione con il resto del traffico, era di 200ft. La notizia colse me ed il Cap. Trinca di sorpresa, ci appartammo un istante per le opportune valutazioni ma poi, facendo forza sul fatto che ero molto ben addestrato nel volare di notte a bassa quota sul mare per effettuare frequentemente manovre di “patch“, decidemmo di non sollevare obiezioni e accettammo la quota assegnata (NdR. Negli anni cui fa riferimento il racconto i velivoli HH3F impiegati erano i Codice Alfa e non si faceva ancora uso dei visori notturni). La notte precedente fu travagliata al pensiero dell’impegno gravoso che mi aspettava il giorno successivo, ma non sapevo ancora tutto: il tempo meteorologico nel tratto interessato all’esercitazione era previsto molto brutto: vento forte e temporali lungo tutta la rotta. Come spesso succede le previsioni si dimostrarono veritiere e potei verificarlo di persona perché nel pomeriggio dello stesso giorno dovetti effettuare una missione in compagnia del Cap. Pilone (detto anche o bravo guaglione o il bell’Antonio) nella stessa zona dove avrei dovuto operare più tardi. In quel volo osservai con attenzione il mare, era così agitato che si vedeva soltanto la schiuma bianca. Se si guardava in lontananza si vedeva solo nero o sfumature di nero tale da non capire dove finiva il mare e dove cominciavano le nuvole. In pratica una di quelle condizione che qualunque pilota vorrebbe evitare, il vento era talmente forte che in alcuni momenti dovevamo mettere circa 30 gradi di deriva. Nonostante tutto ero preoccupato soprattutto per un eventuale impiego di recupero. Conoscevo benissimo i miei limiti, quelli di tutto l’equipaggio e quelli del mezzo e se quest’ultimo si sarebbe comportato bene la nostra missione sarebbe stata una normale missione di pattugliamento.
Tutto l’equipaggio, che per la circostanza era stato rafforzato con un Aerosoccorritore, orbitava intorno all’elicottero molto prima del decollo. Ognuno metteva in ordine il proprio equipaggiamento. Noi piloti continuavano a tracciare rotte e angoli di rilevamento poi, così come previsto, effettuai il briefing della missione e ricordo come se fosse ora di aver detto queste precise parole: “Voglio che a turno un membro dell’equipaggio controlli gli strumenti della pressione e della temperatura dell’olio trasmissione per tutta la durata del volo, senza togliere mai gli occhi da questi. Per tutte le altre problematiche che richiedono un intervento immediato sarò io ad intervenire” intendevo rimarcare quella che è sempre stata la mia ossessione quando volavo su mare, soprattutto quando questo era mosso come in quel caso. Ho sempre sostenuto che avere due motori dà sicuramente una maggiore sicurezza, ma questa non può essere totale perché l’elicottero ha sempre una sola trasmissione e se cede quella i due motori non sono di nessun aiuto. Decollammo in perfetto orario, il Col. Pastorino sedeva tra i due piloti. Avevamo davanti a noi solo 30 minuti di luce, poi ci aspettavano 4 ore di buio più nero dell’inchiostro, con nuvole temporalesche, mare in tempesta e un vento che faceva sobbalzare continuamente l’elicottero al punto che neanche Mario Russo (noto per passare gran parte del volo a dormire sulla barella) sarebbe riuscito a riposare. In aggiunta appena lasciata la costa saremmo dovuti scendere a 200ft, quota che non avrebbe permesso nessuna distrazione. Procedemmo a nord di Elmas, appena lasciato Decimomannu alla nostra destra piegammo a sinistra in direzione del mare, dalla quota di 1500ft già si intravedeva il bianco della schiuma del mare. L’elicottero era pesantissimo perché l’equipaggio era rinforzato e avevamo dovuto imbarcare molto carburante per garantire le ore di volo previste, più la riserva ed il carburante necessario per un eventuale recupero. Che l‘elicottero fosse pesante oltre ai piloti lo avevano capito anche i motori che stavano comunque facendo del loro meglio per tenerci in volo. I miei occhi erano costantemente diretti verso gli strumenti, mentre a bordo era palpabile una certa tensione. Di tanto in tanto per stemperare l’atmosfera si faceva qualche battuta sui nostri colleghi non impiegati in volo che probabilmente avrebbero passato la serata da “Sa Cardica e Su Schironi” (ristorante del cagliaritano noto per l’ottima qualità del pesce servito e notoriamente nostra meta nelle soste a Decimomannu). Ad un tratto notai una lieve oscillazione dello strumento che indicava la pressione dell’olio trasmissione, comunicai la notizia con molta calma allo specialista, chiedendogli di controllare se dall’interno dell’elicottero si vedevano delle perdite di olio. Sospettai inizialmente un errore strumentale, ma in cabina gli occhi di tutti erano rivolti verso quel benedetto strumento. Nel frattempo l’indice dello strumento cominciò ad oscillare in modo più ampio e fu in contemporanea che fummo raggiunti da un orlo proveniente dallo specialista che diceva più o meno così “ …zzo stiamo perdendo tutto l’olio della trasmissione”. Velocemente comunicai all’equipaggio che mi apprestavo ad effettuare un atterraggio di emergenza. Scelsi l’unico prato disponibile in zona, vicino ad una vigna e vicinissimo ad una linea di alta tensione che vedemmo e scavalcammo solo all’ultimo minuto. Si trattò di una rapida discesa, resa ancora più breve dalla limitata quota alla quale volavamo, ma furono quegli attimi che ogni pilota sa che durano un’eternità. Un’eternità durante la quale la mente ed fisico sono caricati a mille, pronti a scattare grazie all’enorme quantità di adrenalina che attraverso “lo scheletro”. Il mio secondo, Gianfranco, con grande professionalità mise in atto le azioni di sua competenza, senza agitazione e dando a me le giuste indicazioni durante la fase finale dell’atterraggio. Una volta sicuri a terra, con motori spenti e rotore frenato, scendemmo dall’elicottero e solo allora potemmo notare che tutta la fiancata dell’elicottero era imbrattata di olio. Sapemmo successivamente che si era rotto il perno che teneva il filtro dell’olio e quindi in meno di un minuto tutto l’olio era stato sputato fuori ad eccezione, come gli esperti sanno, della quantità contenuta nel sottocoppa. Ci trovavamo nella periferia del paese di Villamassargia. Poco dopo la zona si riempì di curiosi, noi dell’equipaggio fummo accompagnati in macchina in aeroporto e se non ricordo male il giorno successivo l’elicottero era di nuovo in volo.
Il pensiero di tutto l’equipaggio andava comunque a quello che sarebbe potuto accadere se la rottura del filtro fosse avvenuta quando ci saremmo trovati in mezzo al mare. Considerate le condizioni ambientali precedentemente descritte, la bravura dell’equipaggio non avrebbe potuto evitare una catastrofe e forse dopo qualche giorno un altro elicottero sarebbe venuto a lanciare un “crisantemo di plastica” (altra espressione rubata al buon Rico Genovese) sul luogo della tragedia.
Successivamente, pur incontrando spesse volte gli uomini di quell’equipaggio non abbiamo più parlato di quell’avventura vissuta insieme, ma ogni volta che vedo i mie compagni di quel volo dico dentro di me “Caro Rico anche quella volta ho portato a casa lo scheletro”