Sofferte Audaci Ricognizioni
La 288ª Squadriglia R.M.L., ricognitori “estremi”
di Giacomo De Ponti
Come molti sanno, le radici del 15° Stormo affondano anche nelle Squadriglie della Ricognizione Marittima Lontana, reparti della Regia Aeronautica impiegati durante il secondo conflitto mondiale nel diretto supporto alle operazioni della Regia Marina.
Tratto dalle memorie del Ten. Filippo Tacoli1 pilota della 288ª, quello che segue è il racconto emozionante e terribile di una missione di guerra di un coraggioso equipaggio di questa Squadriglia, che testimonia come il senso del dovere e l’ardimento di quegli uomini fosse così spinto, da rendere pericolosamente combattivo anche un aeroplano bellicamente ormai inadeguato, come lo fu il Cant Z501, elegante senz’altro ma tutt’altro che paragonabile per prestazioni ed armamento ai caccia avversari.
- Dalle memorie di guerra del Tenente Filippo Tacoli.
Era giunto al reparto da poco. Viso affilato, occhi intelligenti, il Sottotenente Alberti aveva ancora sulle labbra il latte della scuola ove si era brevettato pilota d’aeroplani. In poche parole, era un perfetto “novellino” e, come tale, veniva trattato.
Il suo taciturno carattere lo rendeva scontroso sicché stentava, più del consueto, ad ambientarsi. Senza fiatare, tutte le volte che era di turno, partiva con l’aereo per sorbirsi una delle lunghe e noiose ricognizioni costiere di vigilanza. Queste, per lo scarso pericolo che presentavano, per la loro perfetta inutilità, per la noia che inevitabilmente procuravano, erano il pane quotidiano di chi si accingeva, presso i reparti d’impiego, ad affinare le proprie capacità per i futuri voli a lungo raggio, per i quali era richiesta una lunga esperienza. Segretamente, però, attendeva anche lui gli fosse concesso di abbandonare il “mulo”2 per passare sul più veloce e meglio armato trimotore d’altura3.
Il tempo scorreva ed il comando non si decideva. Alberti restava sempre un novellino. Ma ecco finalmente l’occasione presentarsi. Era il tre del mese quando giunse all’ufficio operazioni la necessità urgente di effettuare una missione a lunga portata, fra la Sicilia e la costa africana. Tutti gli equipaggi erano già fuori, ciascuno intento al proprio lavoro. Non era rimasto in campo che Alberti ed il suo equipaggio. Il Colonnello, prima di decidersi, titubò alquanto ma, visto che non vi era una via d’uscita, lo fece chiamare, gli spiegò quale era il compito che doveva eseguire e, dopo un mucchio di raccomandazioni, lo congedò, pregando, in cuor suo, che un santo protettore lo aiutasse. Alberti, così, decollò in quell’afoso pomeriggio mentre la natura sembrava dormisse sotto la cappa di piombo creata dal sole e sul piatto, abbacinante mare, stazionava la leggera foschia dell’acqua evaporante.
Poche ore prima, con lo stesso scopo per cui era partito il ricognitore, un grosso incrociatore del tipo Jervis aveva salpato le ancore dalla munita piazzaforte di La Valletta. Sulla oscillante plancia della nave, il nemico scrutava attento il mare alla ricerca di un nostro eventuale piccolo convoglio o di un mercantile isolato. Supponeva si, di incontrare un nostro ricognitore, dato che sapeva quanto fosse difficile sfuggire alla stretta maglia di vigilanza, tessuta dai velivoli di questa specialità, ma non poteva immaginare che quel piccolo moscerino, di lì a poco, lo avrebbe attaccato con pazzesco coraggio.
Portato dall’ala del suo velivolo, Alberti percorreva il cammino assegnatogli, sicuro del fatto suo e contento, dopo averlo tanto desiderato, di poter lanciarsi finalmente in mezzo al vasto mare ove l’occhio spaziava a suo agio senza alcun limite Forse era la sua anima, segretamente marinara, che cantava il suo inno di allegrezza, afferrata dal fascino che il liquido elemento emana. Forse era la inconfessata invidia per gli amici che, ritornando a casa, potevano narrare le loro lunghe passeggiate aeree, compiute nell’affascinante solitudine degli elementi, librati sulle creste delle onde, fra nuvola e nuvola. Nemmeno lui avrebbe potuto dirlo. La sua mente era leggera, il suo cuore di ragazzo, gonfio di gioia. Pensava al prossimo ritorno al campo, ove la brigata degli amici lo avrebbe atteso per la consueta festa che lo avrebbe consacrato «anziano». Per ora procedeva sicuro verso la sua meta. Aveva per compagni, oltre l’equipaggio, la turchina distesa marina, l’immenso azzurro cielo, i bianchi, evanescenti fiocchi di vapore e gli eleganti, candidi gabbiani che, sulle loro ali, al pari di lui, percorrevano instancabili, chilometri e chilometri di quel solitario spazio. Non era ciò sufficiente? Sì, era più che sufficiente ma purtroppo Alberti non aveva ancora compreso che la guerra non è un giuoco e che non ammette e non sopporta l’allegria. Lei, per amica, vuol solo la morte.
La rotta percorsa dall’idro italiano, incrociò come era facile accadesse, quella nave inglese. L’aereo trasmise immediatamente il cifrato di avvistamento al comando navale poi, senza esitazione Alberti disse: attacchiamola. Non aveva forse due bombe entro il panciuto ventre del velivolo4? Che importava se esse, fatte per colpire sommergibili non avrebbero arrecato alcun danno alle corazze dell’incrociatore? Se il loro scoppio non avrebbe creato nemmeno una leggera scalfittura alle potenti torri del pachiderma marino? L’aereo puntò dritto verso la grossa nave mentre questa, dirette contro di lui le canne delle sue artiglierie, iniziava un violento fuoco di sbarramento. Spararono i grossi calibri, spararono le nere gole dei pezzi minori. Fecero fuoco le velocissime mitragliere a quattro canne rigando l’aria con le pallottole traccianti, ma il velivolo proseguì il suo volo, ingrandì, si abbassò sino a mille metri, sganciò.
L’incredulo nemico vide due punti neri staccarsi, scendere verso il ponte della nave, urtarlo ed esplodere. Due vampate accecanti (le bombe erano da 160 chilogrammi ciascuna) avvolsero l’incrociatore mentre l’aria, spostata dalla deflagrazione, si portava via alcuni oggetti non bene assicurati. Null’altro, come era prevedibile. Il colosso del mare continuò imperterrito la sua navigazione.
Molte volte, il leale soldato apprezza il coraggio del nemico.
L’atto di Alberti ebbe il rispetto e l’ammirazione del comandante la nave e degli ufficiali che, attorno a lui, avevano assistito all’attacco dall’alto della plancia. Pertanto l’incrociatore cessò il fuoco per lasciare che l’idro potesse salvarsi. Del resto, sapeva di essere stato avvistato e che, dopo il lancio, il velivolo era completamente innocuo. Così, il rombo dei suoi potenti motori si perse nello spazio e la sua sagoma svanì all’orizzonte.
Ma Malta era vicina, Malta vegliava. Aveva intercettato il messaggio di avvistamento e la caccia si era immediatamente lanciata verso il punto dove era avvenuto l’incontro fra la nave ed il ricognitore. Per lei, la faccenda era diversa. Un ricognitore è sempre un pericoloso avversario da togliere di mezzo, eroe o non eroe.
Quattro neri punti filarono a tutta velocità sulla scia dell’aereo di Alberti ed appena lo ebbero raggiunto, gli si gettarono addosso. L’idro, però, non si lasciò sorprendere e rispose al fuoco con tale precisione che uno dei caccia, colpito, finì in mare dopo soli pochi minuti di duello. Qualche frazione di tempo dopo, l’aereo di Alberti ne centrò un secondo. Le pallottole esplosive gli squarciarono il ventre, fecero saltate la cabina, incendiarono i serbatoi. Il caccia ebbe una brusca impennata, si vide il pilota tentare di uscire dalla cabina poi, il velivolo si capovolse e si tuffò in mare. Ma gli altri tornarono all’attacco ed il combattimento continuò così più feroce che mai andando man mano spostandosi dal punto ove le prime due vittime erano finite in mare. Un terzo caccia, spintosi, per errore, troppo sotto all’aereo italiano, fu centrato in pieno dalla mitragliera di coda.
Colpito nelle parti vitali, anche lui si capovolse sparendo in una nube. Allora, l’unico superstite, desistette dall’attaccare. Meglio era, attendere rinforzi.
Il comando di Malta, ora più che mai, era deciso a finirla. Fece partire un’intera formazione di caccia intercettatori dirigendola verso il velivolo italiano. L’ordine era di buttarlo giù a tutti i costi. La conclusione inevitabile stava avvicinandosi per l’idroricognitore. Sapendosi condannato, si apprestò a far pagare caro il suo abbattimento.
La lotta all’ultimo sangue, lotta senza quartiere, si accese così, ancora più furiosa ed acrobatica, alta nel cielo ove solo le nubi stavano a guardare.
Nella carlinga del ricognitore il fumo degli spari si andava addensando come una nebbia. I colpi crivellavano le ali, la fusoliera, facendo saltare, man mano, comandi, tubazioni e falciando l’equipaggio ad uno ad uno. Prima il radiotelegrafista, poi il motorista caduto sull’arma che impugnava, indi il secondo pilota. Gli altri, continuavano a difendersi. Si spense l’armiere, colpito in fronte da una pallottola esplosiva che gli asportò mezzo viso ma l’aereo non andava giù. L’ultimo superstite, oltre ad Alberti, aggrappato alla sua mitragliatrice, continuava a respingere gli assalti del nemico che si faceva sempre più sotto. Due altri aerei si perdettero nei flutti. L’ira del comando di Malta non aveva più limiti. No, non era possibile! Tempestava di ordini i suoi caccia. Non deve sfuggire. Abbattetelo! Dategli sotto! Altre virate, altri assalti, altri spari rabbiosi da ambo le parti. Indi, anche l’osservatore, unico superstite fra i difensori, cadde fulminato.
Non era rimasto in vita sull’idroricognitore che Alberti, che tenacemente aggrappato ai comandi voleva riportare a casa quel suo aereo a brandelli ed il carico di morti. Trovò una nube sufficientemente ampia e vi si gettò dentro. Allora il nemico, anche lui esausto, invertì la rotta, cessando il combattimento. Forse ritenne che quel rudere di aereo non avrebbe volato per molto tempo ancora. All’infernale carosello, al frastuono degli spari, succedette una gran calma maggiormente avvertibile per il contrasto. L’idro italiano pareva finito ma non lo era. I motori funzionavano ancora. Barcollando nell’aria, rifece il cammino percorso nell’andata con tanta serenità, cercò il suo specchio d’acqua, planò, scivolò sulle onde, si arrestò rimanendo immobile e silenzioso. Le idroambulanze, precedute dal cupo urlo delle sirene, si staccarono dai pontili, guidate dal personale addetto, che già intuiva ciò che lo attendeva allorché fosse giunto sotto il velivolo dal cui ventre scendeva, allargandosi sull’acqua, un ininterrotto rivolo di sangue.
Le mani si tesero, i corpi vennero sollevati, adagiati sulle barelle. Poi le sirene ripresero il loro lamento ed i motoscafi diressero le prue verso l’infermeria. D’un tratto il curvo sportellone in vetro della cabina di pilotaggio scattò aprendosi e la sagoma di un essere umano, imbrattata di sangue si sollevò pian piano, sporgendo a mezzo busto. Era il Sottotente Alberti, “il pilota novellino” colui che aveva riportato in Patria il suo aereo e i suoi morti. Lo sguardo vitreo di chi aveva vissuto un’indescrivibile e spaventosa tragedia, di chi, per oltre tre ore allucinanti si era sentito solo nella immensa vastità del cielo, solo a lottare con dei ruderi di comandi, circondato dalle spoglie dei suoi amici che lo stavano ad osservare nell’immobilità della morte, seguì il triste corteo finché lo vide sparire dietro la svolta di un viale.
Allora, nel ristabilito silenzio, si levò, alto, convulso, un urlo disumano: il grido agghiacciante dell’unico superstite che, superata la terribile avventura, non fu in grado di evitare all’intelletto di cedere ad un momento di follia.
- Nota sull’araldica della 288ª Squadriglia R.M.L.
Il racconto sull’azione del Sottotenente Alberti ed i ritrovamenti in tema di araldica della 288ª Squadriglia R.M.L. emersi nella ricerca, ci offrono l’opportunità di esaminare le sorti del suo stemma, sorti che spero possano cogliere l’interesse di quanti hanno fatto parte in passato e tutt’oggi appartengono alla 288ª Squadriglia, ora dell’85° Gruppo CSAR.
L’airone, volatile acquatico che ben può rappresentare in allegoria un velivolo idrovolante, che con un cannocchiale scruta il mare rappresentava in origine ed in una efficace sintesi, il paziente lavoro affidato agli equipaggi della 288ª Squadriglia R.M.L. ed il motto “Non credo se non vedo” voleva esprimere in modo volutamente scherzoso (tipico del piglio scanzonato dei più apprezzati stemmi dell’epoca) l’affidabilità dei rapporti di avvistamento, indispensabile ai reparti destinati al successivo attacco all’avversario. Le fonti consultate per ricostruire il racconto hanno permesso di individuare nel Ten. Pil. Filippo Tacoli (che, ricordiamo, scrive con lo pseudonimo di F. di Valdalbero) l’autore dello stemma, il quale, nella scelta del soggetto ha senz’altro tratto l’ispirazione dal volatile che dava il nome al velivolo più ambito nella specialità, il Cant Z506, denominato “Airone”.
L’immagine5 è presa dal libro fonte del racconto6 e ci tramanda la testimonianza certa dello stemma originale, un airone di colore chiaro, probabilmente bianco, in volo nell’atto di scrutare con un cannocchiale, su di uno sfondo nel quale chiaramente si distingue la linea d’orizzonte che demarca il mare ondato, di colore probabilmente blu, dal cielo nuvoloso, probabilmente in toni di azzurro e grigio, il tutto contenuto in uno scudo di foggia “ritondata” (o scudo spagnolo) “intagliato” nell’“angolo destro7 del capo” e “bordato” di colore chiaro. Suddiviso tra l’“angolo sinistro del capo” ed il “fianco sinistro” dello scudo troviamo il motto “Non credo se non vedo” scritto in carattere stampatello chiaro, probabilmente bianco, con ombreggiatura scura (per ovvie ragioni di contrasto con lo sfondo chiaro). Nel “piede” dello scudo, con andamento conforme alla sua curvatura, vi è la denominazione della Squadriglia: “288ª Sq. R·M·L·” (si noti l’interpunzione tra le lettere della sigla, a metà dell’altezza, secondo l’antica usanza romana, anziché nella più usata, attuale, posizione al piede), sempre in carattere stampatello chiaro, senza ombreggiatura.
Tale è l’aspetto originale, pur nei soli toni di grigio, che ci restituisce la storia sinora accertata.
Una variante di questo stemma, sicuramente coeva, ancorchè lievemente differente nella foggia e nei colori, ci viene da Franco Pagliano8, pilota e scrittore della Regia Aeronautica, che nel 1943 ha fissato un’immagine dello stemma, sostanzialmente non dissimile dall’originale, ma differente nella colorazione, sia come schema che come colori.
La posizione dei “carichi” (disegno e scritte) sullo scudo è fedele (ancorché la denominazione della Squadriglia sia in orizzontale anziché in curvatura), ma la differenza che colpisce è la colorazione dello scudo, che adesso è “piena” di colore verde, anziché “troncata” (divisa a metà in senso orizzontale) come nell’originale in due colori, a rappresentare il mare ed il cielo.
Anche in questo caso, purtroppo, non sono stati trovati elementi utili a comprendere se questo stemma sia una successiva variante di quello descritto in precedenza, oppure una sorta di “licenza” attribuibile a Pagliano (il cui libro, tuttavia, ha il pregio di contenere stemmi, alcuni dei quali tutt’ora in uso, la cui fedeltà di colorazione è stata confermata anche da altre fonti).
In tempi più recenti, intorno al 1983, l’allora Ten. Carlo Sabbatini, pilota da poco assegnato all’85° Gruppo SAR, probabilmente consultò l’immagine tratta dal libro di Pagliano, ma sicuramente non conosceva i diversi dettagli dello stemma originale9, quando il Gruppo affidò alle sue abili mani di disegnatore la realizzazione degli stemmi delle sue due squadriglie: la 142ª e la 288ª.
Per quello della 288ª, Carlo si ispirò quindi allo stemma illustrato da Pagliano, introducendo però ulteriori varianti. Sparì il motto e la denominazione della Squadriglia perse, ovviamente, il titolo R.M.L., in quanto adesso appartenente alla specialità S.A.R., lo scudo divenne intagliato nel lato destro della punta e bordato di rosso. L’airone divenne giallo e mantenne l’atteggiamento di osservazione con un binocolo che però non usciva più dal bordo dello scudo; l’animale, che nello stemma originale è ripreso in volo, ora poggia una zampa su di uno scoglio affiorante da un lembo di mare ondato azzurro e si staglia contro un cielo di colore grigio-azzurro chiaro. La scelta dei nuovi colori si ispirò a quelli dello stemma di Stormo, da qui il giallo dell’airone, colore distintivo del Soccorso ed in esso usato per rappresentare l’Italia. Lo stesso schema generale dello stemma della 288ª, fu usato per quello della Squadriglia gemella, la 142ª, che, in mancanza di dati storici di riferimento, fu creato ex novo utilizzando una spigliata e divertente fantasia10.
Lascio ora questa narrazione con l’auspicio che lo sforzo di ideazione del Ten. Tacoli e quello di perpetrazione del Ten. Sabbatini inducano a riflettere sul valore intrinseco dello stemma di un reparto. Lo stemma dell’unità si evolve e talvolta si trasforma anche sostanzialmente, ma finché l’unità che esso rappresenta vivrà è importante che gli uomini che lo vestono lo vedano crescere e lo seguano con passione e rispetto nella consapevolezza che esso è filo conduttore della storia e collegamento alle radici; lo stemma aiuta a permearsi dello spirito di coloro che ci hanno preceduti, a condividerlo con chi ora sta al fianco e ci prepara a trasmetterlo a coloro che verranno.
Testi consultati e fonti
“Partita a poker con la morte – diario di un ricognitore”, Filippo Tacoli, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1978
“Araldica del cielo”, Franco Pagliano (scritto nel 1943), Rizzoli Editore, Milano 1978
“La Regia Aeronautica 1939 – 1943”, Nino Arena, ed. SMA-USSMA 1981
Diari Storici della 288ª Sq. R.M.L., anni 1940-1942, fonte SMA-USSMA
6 La foto che riproduce lo stemma fa parte delle illustrazioni che arricchiscono il libro citato nella nota 1.